Pare incredibile, ma oltre i due terzi degli stemmi comunali del nostro Paese non sono a norma o non hanno avuto il necessario riconoscimento.
L’Italia pur essendo considerata uno dei simboli del design, della cultura e dell’arte mondiale, sta lasciando lentamente scomparire l’arte araldica, un tempo considerata come “nobilissima armorum scientia”.
In un piccolo scudo è contenuta e tramandata la nostra storia, un racconto di vita vissuta; l’araldica è infatti una disciplina scientifica per lo studio degli stemmi, dei simboli e delle complesse norme che ne regolano la materia.
Studia ed insegna a comporre le armi, gli emblemi, i colori e gli ornamenti per identificare Enti, famiglie e persone.
Ogni Comune ha il suo stemma sui documenti, sulla modulistica, sugli automezzi e sui gonfaloni, tuttavia non rientrano tra gli oggetti di studio dell’araldica le bandiere e i loghi o marchi di natura commerciale o industriale: le prime, perché a esse l’araldica fornisce solo la giustificazione storica e la base concettuale di costruzione, ma poi le abbandona al momento in cui esse vengono rigidamente regolamentate da leggi e decreti che riguardano la loro esatta riproduzione e dimensione; i secondi, perché si tratta di espressioni grafiche assolutamente rigide, immutabili e “congelate” nell’unica forma ammessa.
Nella nostra legislatura gli stemmi araldici hanno, tra i pochi casi al mondo, una specifica tutela giuridica: Regioni, Provincie, Città e Comuni possiedono precise regole per adottare i propri, la Legge attraverso il Regio Decreto 61 del 1929, 1440 del 1933 e del 652 del 1943 ha posto le solide basi per la costruzione e l’adozione degli Stemmi Araldici per i suddetti Enti dello Stato. Così come la L. 142 del 08/06/1990 (“Ordinamento delle autonomie locali”) ha introdotto l’obbligo/diritto per Comuni e Provincie di dotarsi di un apposito statuto sul quale, tra le altre cose, vanno riportati gli elementi identificativi dell’Ente Locale, la descrizione dello stemma e del gonfalone.
IL GONFALONE
Il gonfalone (anticamente anche confalone) è un vessillo, di norma rettangolare e appeso per un lato minore ad un’asta orizzontale a sua volta incrociata con una verticale sostenuta da chi porta il gonfalone (gonfaloniere). Fu adottato da numerosi comuni medioevali, ed in seguito anche Compagnie, Corporazioni e Quartieri adottarono propri gonfaloni.
Oggi tutti i comuni italiani sono rappresentati da un proprio gonfalone con al centro lo stemma comunale. I gonfaloni ufficiali, così come stabilito dall’articolo quinto del Regio Decreto 652 del 1943 devono essere: di un metro per due, del colore di uno o di tutti gli smalti dello stemma dell’ente, sospeso mediante un bilico mobile ad un’asta ricoperta di velluto dello stesso colore, con bullette poste a spirale, e terminata in punta da una freccia, sulla quale sarà riprodotto lo stemma, e sul gambo il nome dell’ente. Il drappo, riccamente ornato e frangiato sarà caricato, nel centro, dello stemma dell’ente, sormontato dall’iscrizione centrata (convessa verso l’alto) dell’ente. La cravatta frangiata dovrà consistere in nastri tricolorati dai colori nazionali.
Gli smalti sono i colori che compongono lo stemma e si dividono in due gruppi: il gruppo dei metalli (oro e argento) e il gruppo dei colori (azzurro, rosso, nero, porpora, verde). Il vaio e l’ermellino sono oggi in pratica abbandonati.
Un recente d.P.C.M. dispone che il gonfalone abbia un drappo rettangolare di 90 per 180 cm, su cui è effigiato lo stemma dell’ente con la relativa corona. Il colore del drappo deve riferirsi ad un colore presente nello stemma.
L’ASPETTO TECNICO
Sotto l’aspetto tecnico lo stemma di un Comune, così come quelli di una Provincia devono soddisfare precise regole non solo per vincoli estetici ma per permetterne il riconoscimento da parte dell’ufficio Onorificenze e Araldica pubblica del Dipartimento del Cerimoniale di Stato, in capo alla Presidenza del Consiglio – massima istituzione che suggerisce alla Presidenza della Repubblica l’autenticità dello stemma in modo da poterlo rendere ufficiale con apposito Decreto del Presidente della Repubblica.
In conformità al decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri 28 gennaio 2011 gli enti, territoriali e giuridici, che intendano conseguire ufficialmente emblemi araldici, debbono rivolgersi al Servizio araldica pubblica nell’ambito dell’Ufficio Onorificenze e Araldica.
L’odierno ordinamento riconosce valore solamente agli emblemi araldici (stemmi, gonfaloni e bandiere e sigilli) delle regioni, delle province, delle città metropolitane, dei comuni, delle comunità montane, delle comunità isolane, dei consorzi, delle unioni di comuni, degli enti con personalità giuridica, delle banche, delle fondazioni, delle università, delle società, delle associazioni, delle Forze armate ed dei Corpi ad ordinamento civile e militare dello Stato.
La concessione di essi, è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Lo stesso decreto all’articolo 5 detta le caratteristiche tecniche degli emblemi: lo stemma è costituito da uno scudo e, nel caso di province e di comuni insigniti del titolo di città, e di comuni, da una corona collocata al di sopra dello scudo stesso. Oltre ad essere elemento di completezza dell’emblema, la corona indica con la sua forma il grado di appartenenza dell’Ente.
LO SCUDO
Lo scudo – obbligatorio – per la costruzione degli stemmi è quello detto “sannitico moderno”; cioè uno scudo rettangolare con gli angoli inferiori arrotondati. Tale scudo deve mantenere una proporzione di 7 moduli di larghezza per 9 moduli di altezza.
Questi nove moduli sono detti “punti dello scudo” e vengono identificati da nomi che variano di poco secondo gli autori, eccezion fatta per il «punto centrale» (5) detto anche «cuore» o «abisso».
Due altri “punti”, citati da tutti, sono il «punto d’onore» (A) e l‘«ombelico» (Ω). Ma se per alcuni si tratta di un’area equivalente ai primi posta a cavallo di 2 zone, per altri di tratta di punti in senso geometrico, situati al centro delle frontiere 2-5 e 5-8.
Quali che siano gli autori, vi è simmetria di denominazione tra 1 e 3, 4 e 6, 7 e 9 in cui “destra” per 1, 4 e 7 corrisponde a “sinistra” per 3, 6 e 9. La destra di uno scudo è quella posta a sinistra di chi lo guarda, infatti, in araldica sinistra e destra sono quelle di chi porta lo scudo.
- Punto 1: “canton destro del capo” (Duhoux D’Argicourt lo chiama «angolo destro del capo» che designa secondo gli altri autori l’angolo materiale dello scudo);
- Punto 2: “punto del capo” (numerosi autori lo chiamano semplicemente «capo» ma non confermano tale denominazione nella loro definizione di «capo»);
- Punto 4: “punto del fianco destro” (stessa osservazione fatta per il capo);
- Punto 7: “canton destro della punta” (Duhoux D’Argicourt come per 1, parla di angolo);
- Punto 8: “punto della punta”. La maggior parte degli autori usano solo “punta” (ma si trova più spesso conferma nella definizione di “punta”). Talvolta si trova “piede”.
Queste differenze di vocabolario o di definizione non hanno in pratica conseguenze sulla blasonatura — il che probabilmente spiega come mai tali differenze resistono.
Lo scudo può essere suddiviso a sua volta in partizioni secondo semplici linee, le quattro partizioni di base (partito, troncato, trinciato, tagliato) possono essere combinate all’infinito in modo che ogni elemento sia in grado di comportarsi come uno scudo a parte.
LA CORONA
Gli scudi sono sormontati da una corona, diversa per la tipologia dell’Ente: Comune, Provincia e Città.
Le Province utilizzano una corona costituita da un cerchio d’oro gemmato con le cordonature lisce ai margini, racchiudente due rami, uno di alloro e uno di quercia, al naturale, uscenti dalla corona, decussati (dicesi la croce di Sant’Andrea e le pezze poste in quella posizione) e ricadenti all’infuori.
Le Città, ovvero i Comuni insigniti del titolo di città, utilizzano una corona turrita, formata da un cerchio d’oro aperto da otto pusterle (cinque visibili) con due cordonate a muro sui margini, sostenente otto torri (cinque visibili), riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero.
I Comuni invece devono utilizzare una corona formata da un cerchio aperto da quattro pusterle (tre visibili), con due cordonate a muro sui margini, sostenente una cinta, aperta da sedici porte (nove visibili), ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, il tutto d’argento e murato di nero.
A completare lo stemma v’è un elemento decorativo composto da due rami, uno di quercia con ghiande e uno di alloro con bacche, fra loro decussati, posti sotto la punta dello scudo e annodati da un nastro con i colori nazionali.
Gli enti diversi da quelli territoriali possono fregiare il proprio stemma con corone speciali di cui l’Ufficio onorificenze e araldica, di volta in volta, cura la realizzazione.
Una piccola curiosità storica, durante il ventennio fascista i Comuni potevano fregiarsi della concessione del “Capo del Littorio”, istituito con decreto numero 1440 del 12 ottobre 1933 (anno XI° dell’era fascista); questa blasonatura era di colore porpora con un fascio Littorio d’oro circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dai colori nazionali. Una volta concesso con decreto, a firma del Re Vittorio Emanuele III e controfirmato
da Benito Mussolini, veniva posto nella parte superiore dello scudo.
Il color porpora non fu certo una adozione casuale visti “i credi ispiratori” della dittatura Fascista: i romani in primis utilizzarono il color porpora come simbolo del potere, fregiando di drappi rossi senatori e imperatori. Graficamente il colore porpora si rappresenta con linee diagonali araldicamente da sinistra a destra.
L’art. 2 del decreto recitava: “L’emblema del fascio littorio usato, a norma delle disposizioni vigenti, dalle province, dai comuni, dalle congregazioni di carità e dagli enti parastatali autorizzati a fregiarsene, dovrà essere disposto negli stemmi di legittimo possesso iscritti nei libri araldici del regno, nella forma della figura araldica del capo.”
fonte: www.draft.it